martedì, ottobre 16, 2007

La terza cultura ha il suo pubblico



Il Sole-24 Ore, nòva24, giovedì 4 ottobre 2007, pag. 10

Guido Romeo

(Roald Hoffmann, Se si può, si deve?, Di Renzo Editore)

La voglia di innovazione che negli anni ’60 animava la Factory di Andy Warhol oggi pervade quel territorio dai confini sempre più porosi a cavallo tra arte e scienza. Nei laboratori molti storcono il naso a questo eclettico mescolar di carte, ma la contaminazione tra atomi e Muse riscuote sempre più successo tra il pubblico e produce nuovi stimoli anche per la ricerca. «Oggi quella Terza cultura in grado di superare la dicotomia tra studi scientifici e umanistici è in piena esplosione, ma forse non nel modo in cui l’aveva immaginata C. P. Snow cinquant’anni fa; osserva William J. Mitchell, direttore del programma “Città intelligenti” al Mit di Boston. Il prossimo 14 ottobre, Mitchell parteciperà a Bergamoscienza, confrontandosi con l’artista Armin Linke sui confini tra realtà e immaginazione, partendo dalle interazioni tra le attività umane e i paesaggi naturali e artificiali nei quali ci muoviamo. Nel corso del medesimo fine settimana il festival metterà due volte in scena anche «Se si può, si deve?» la terza fatica teatrale del Nobel per la chimica Roald Hoffmann che affronta la responsabilità degli scienziati a partire dal suicidio di Friedrich Wertheim, chimico di origine tedesca, il quale si toglie la vita dopo aver scoperto che un gruppo di terroristi ha utilizzato una neurotossina di sua invenzione per commettere un genocidio.

«Quando Snow parlava di contaminazione tra diverse culture, non immaginava certamente lo sviluppo di uno strumento come internet che ha rapidamente fatto cadere molte barriere creando un accesso più democratico a moltissimi campi prima strettamente specialistici – osserva Mitchell – oggi questo sta producendo un nuovo tipo di pubblico, numericamente consistente e intellettualmente impegnato, che non si sente particolarmente legato, per quanto riguarda i suoi interessi e attività, dai tradizionali steccati tra discipline o istituzioni». I precedenti di scienziati con grande successo artistico non mancano. Basti pensare a Carl Sagan o a Oliver Sacks, ma oggi la contaminazione sta diventando ancor più vasta e complessa, con migrazioni da un campo all’altro che interessano sempre più spesso i più giovani. Vijay Iyer, 35 anni ed ex-dottorando in fisica all’Università di Berkley ora basato a New York, si considera prima scienziato che musicista anche se l’anno scorso il suo ultimo album, «Reimaging», era ai vertici delle classifiche jazz. Un successo dovuto alla sua dimestichezza con le matematiche più complesse che gli permette di esplorare nuovi ritmi basati su combinazioni, permutazioni, sequenze di Fibonacci e medie auree, ma anche alle sue origini indiane. Le arti visive e musicali indiane utilizzano schemi molto elaborati e simmetrici con proprietà matematiche sorprendenti. Dei veri esercizi di calcolo che fanno da trama al senso estetico.
La traiettoria di Iyer è inversa a quella di Brian Cox, 38 anni, che qualche tempo fa ha lasciato le tastiere dei britannici D. Ream per l’acceleratore Lhc del Cern di Ginevra. Atomi e particelle non gli stanno però impedendo di diventare uno dei divulgatori più popolari della tv britannica. Il suo sogno? Scrivere un’opera in grado di eguagliare la popolarissima serie televisiva «Cosmos» di Sagan. Il pubblico apprezza questo rimescolio di generi che aiuta a riflettere sulla realtà nella quale viviamo. «La prima rappresentazione della mia pièce l’estate scorsa a Torino ha avuto grande successo perché lasciando il teatro gli spettatori già discutevano di ciò che avevano visto» osserva Hoffmann, che a 70 anni sembra considerarsi appena agli inizi di una nuova carriera. Ma quando scrive un brano musicale o un’opera teatrale si lavora come artisti? «Nelle mie rappresentazioni parlo di ciò che conosco e quindi anche di scienza – spiega Hoffmann – ma ho scelto il teatro perché è una forma di comunicazione particolare, in grado di toccare lo spettatore come la tv o il cinema non sono in grado di fare. la rappresentazione è fatta da persone in carne e ossa nelle quali l’identificazione è molto più forte. Riuscire a sfruttare questa energia emotiva quando si affrontano temi molto astratti come la responsabilità sociale e l’etica è estremamente importante». Il modello di Hoffmann è proprio un italiano, Primo Levi, chimico e sfuggito all’Olocausto come lui. «Ciò che trovo grandioso di Levi è come ha scritto del mondo in cui viveva, della sua esperienza nel campo di concentramento e del suo ritorno al lavoro in una piccola azienda chimica, in un modo che mostra come la chimica fosse anch’essa parte della sua vita, senza separare il suo lavoro dalla sua scrittura. Anzi costruendo un legame metaforico tra i due».
La separazione tra scienza e arte che tanto faceva orrore a Snow è quindi finalmente superata? «In un certo senso no – osserva Hoffmann – perché le scienze sono diventate sempre più ricche e complesse, addirittura generando ignoranza al loro interno tra campi anche molto vicini come fisica e chimica». Un punto sul quale Hoffmann e Mitchell concordano è però l’abbattimento definitivo tra la cosiddetta arte “alta” e la cultura popolare. Un mutamento che sta producendo un’immagine più precisa del mondo, ma anche moltiplicando l’accesso a quella conoscenza che per Mitchell è sempre più al centro della crescita delle economie moderne.

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