mercoledì, marzo 14, 2012

Due domande a Giorgio Parisi

Giorgio Parisi è nato a Roma nel 1948 da una famiglia benestante. Da piccolo si interessa alla matematica che si sviluppa in tutto il periodo scolastico con lo studio del calcolo.  Legge fantascienza e divulgazione scientifica in maniera spasmodica e dopo le superiori si iscrive a Fisica e si laurea con Nicola Cabibbo sul problema del bosone di Higgs

Subito dopo la laurea entra nel team dell’INFN di Frascati che si occupa dei problemi della fisica con elettroni e positroni e del deep inelastic scattering. Nel corso degli anni 80, si appassiona agli strumenti avanzati di calcolo e insieme a Cabibbo promuovono la costruzione di strumenti di calcolo parallelo per le teorie di gauge

Parisi è uno degli esponenti più brillanti della fisica italiana contemporanea. Di lui spicca la varietà di interessi: nelle sue oscillazioni tra la teoria dei campi e la meccanica statistica, si è occupato anche di reti neuronali, spingendosi nel campo dei modelli biologici. 

Come ha deciso di diventare un fisico? 

A quanto pare i numeri sono stati la mia prima passione: già a quattro anni sapevo leggere l’insegna dell’autobus e mi dilettavo con giochi che richiedevano la conoscenza di combinazioni numeriche. 

Ai tempi del liceo i miei interessi erano rivolti esclusivamente alla matematica e mi impegnavo seriamente per cercare di giocare a scacchi a un buon livello. La fisica è una passione nata più tardi, con la scelta dell’università. 

Ricordo che rimasi incerto, fino all’ultimo, tra fisica e matematica. Avevo invece escluso categoricamente ingegneria – la facoltà che avrebbe voluto farmi frequentare mio padre – perché sapevo già che avrei voluto dedicarmi alla ricerca e non soltanto alla pratica.

Credo che alla fine abbia prevalso la maggiore conoscenza che avevo della fisica moderna, cosa dovuta principalmente alla maggiore facilità che si incontra nella divulgazione delle scoperte della fisica rispetto a quelle della matematica, una differenza dovuta alla maggiore concretezza della fisica. Infatti, mentre avevo un’idea più o meno precisa dei grandi successi della fisica della prima metà del ventesimo secolo, ignoravo completamente (come d’altronde quasi tutto il resto del mondo, esclusi i matematici professionisti e pochi altri ricercatori) quali fossero i problemi sui quali lavoravano i matematici. 

Spiegare cosa sia la fisica è molto più semplice che spiegare cosa sia la matematica, giacché quest’ultima, specialmente nel ventesimo secolo, ha raggiunto vette d’inaudita astrattezza. Se prendiamo, ad esempio, alcuni teoremi divenuti famosi, come quello di Fermat, dimostrato meno di un decennio fa, ci accorgiamo che hanno quasi tutti una formulazione elementare, mentre la dimostrazione passa attraverso una serie di astrazioni estremamente difficili da riportare non solo sul piano dei fenomeni osservabili, ma addirittura incomprensibili per chiunque sia fuori dal settore specifico. 

Nel bellissimo libro L’ultimo teorema di Fermat di Simon Singh (Milano, 1997) è impressionante come la strategia seguita da Weil per arrivare alla dimostrazione sia molto chiara, e anche come sia limpida la ricostruzione storica, ma l’autore giustamente non fa alcun tentativo per cercare di spiegare in che cosa consistevano concretamente i vari teoremi intermedi che bisognava dimostrare per arrivare al risultato finale. 

Certamente è stata proprio questa mia diversa conoscenza delle due scienze a farmi propendere per la fisica, anche se non sono mancati i ripensamenti. 

Comunque, lo studio di questa disciplina richiede ugualmente un’approfondita conoscenza della matematica, anche se si possono spesso ignorare settori sviluppatisi molto recentemente: è assolutamente essenziale riuscire a tradurre il mondo in numeri, osservare come questi si evolvono e cambiano nel tempo, e alla fine costruire una teoria che li spieghi. 

È interessante notare anche come in certi campi la fisica arrivi a sorpassare la matematica, utilizzando metodi meno rigorosi dei matematici professionisti, che vogliono delle dimostrazioni perfette e inattaccabili. Mentre un matematico per dimostrare un teorema deve arrivare a delle conclusioni al di là di ogni dubbio, un fisico si ferma quando ha raggiunto un ragionevole convincimento della verità delle sue conclusioni. 

Mi è capitato più di una volta di arrivare a “dimostrare” dei risultati (ovvero a portare degli argomenti euristici convincenti per la loro correttezza) e solo successivamente alcuni matematici di grande classe, dopo molti anni di duro lavoro, sono riusciti a trasformarli in veri teoremi. 

Come è cominciata la sua carriera scientifica? 

All'epoca in cui ero ancora studente universitario vigeva la convinzione, predominante in ambito accademico, che la fisica fondamentale fosse quella delle particelle elementari. Specie in Italia, dove avevamo il mito di Enrico Fermi, questa branca rappresentava il campo d’elezione per chiunque volesse cimentarsi in qualcosa di difficile. 

All'epoca c’era una forte tendenza “riduzionista” a considerare più importanti le leggi di base e ritenere secondario lo studio del comportamento collettivo di sistemi formati da molti componenti; un po’ come privilegiare lo studio dei materiali in un corso di Architettura. 

La fisica delle particelle elementari è quanto di più «piccolo» conosciamo in natura, da qui vengono le leggi ultime della materia, che in potenza potrebbero offrirci anche la spiegazione di quanto ci è ancora ignoto. 

Tuttavia, non bisogna aspettarsi da queste leggi una spiegazione lineare dei fenomeni macroscopici, del mondo come lo osserviamo e lo vediamo ad occhi nudi, nello stesso modo in cui non possiamo spiegare direttamente l’architettura romana a partire dalle proprietà fisico-chimiche del mattone.

L’attrazione esercitata da un campo scientifico dipende molto da fenomeni di moda e dalla capacità di affabulazione dei divulgatori. In realtà tutti hanno i loro problemi interessanti e difficili da risolvere, che sono una sfida intellettuale che può eccitare l’interesse dei curiosi. 

In ragione del fascino che suscitava all’epoca, optai subito per la fisica delle alte energie. E visto che Nicola Cabibbo era il fisico teorico più rappresentativo in quel momento, mi rivolsi a lui per la tesi.

Cabibbo aveva lavorato con Raul Gatto a Frascati sulle collisioni elettrone-positrone; successivamente le loro strade si erano divise e c’era anche stato un periodo di grande competizione su un argomento specifico. 

Raul Gatto è un personaggio unico, a parte la sua grande capacità come fisico; negli anni Sessanta aveva messo in piedi un gruppo di fisici teorici a Firenze: una decina di persone che lavoravano secondo tecniche stakanoviste. 

Ogni settimana veniva esaminata la letteratura scientifica appena pubblicata, se ne discuteva insieme e si programmavano eventuali rettifiche ai lavori altrui. C’era un forte senso di coesione, sicuramente dovuto all'abilità di Gatto nel riunire i fisici teorici più brillanti di quella generazione (per esempio Guido Altarelli, Luciano Maiani, Giuliano Preparata, Gabriele Veneziano). 

Nel 1971 entrai per due anni a Frascati, durante quello che è stato forse il momento d’oro di quel centro di ricerca, perché si effettuavano le prime esperienze di annichilazione di elettroni e positroni. Una parte dell’attività teorica era collegata alla teoria dei campi e alle interazioni deboli

Mentre continuavo a lavorare a Frascati, accettai un primo invito di Richard Brant per trascorrere un mese alla New York University. Dopo alcune altre esperienze in Europa, qualche visita breve a Parigi e ad Amburgo e due mesi al CERN di Ginevra, cercai di andare per un anno a New York. 

Non mi organizzai in maniera sistematica, scrivendo a tappeto alle varie università di quella città, ma mi consultai solo col mio amico Richard: però sfortunatamente quell’anno non c’erano fondi per nuove borse alla New York University. 

Mentre non avevo ancora deciso come organizzare il futuro, mi arrivò a sorpresa una lettera di Tsung Dao Lee – il fisico cinese che, all’età di 31 anni, ha avuto il Nobel per aver scoperto «la non conservazione della parità» – che m’invitava a passare un anno alla Columbia University, invito che accettai con molta soddisfazione. Ho saputo soltanto tempo dopo che era stato Brant a propormi per quel posto. 

Amavo la fisica e amavo New York. Mi sembrava proprio di avere tutto, anche se la ricerca alla Columbia non era molto stimolante: continuavo a fare le cose che già facevo prima, e anche se avevo molti amici tra i fisici di New York, non abbiamo mai scritto un lavoro in comune. 

Dopo un anno sono tornato in Italia, anche se avevo ricevuto molte offerte allettanti all’estero e non mi sono mai pentito di questa decisione.

Nessun commento: