lunedì, dicembre 06, 2010

Jane Goodall e la perdita della biodiversità.

Ho iniziato il mio lavoro in Africa 50 anni fa, studiando gli scimpanzé del Gombe National Park in Tanzania. Allora l’habitat degli scimpanzé si estendeva ben oltre i confini del parco. Ma dai primi anni ’90 gli alberi al di fuori del parco erano quasi completamente scomparsi. Quando ho sorvolato l’intera area con un piccolo aereo, era evidente che ci fossero più persone che vivono nei villaggi intorno al parco che terra che potesse sostenerli. Il risultato non è solo la crescita della popolazione tipica, ma anche un afflusso di rifugiati dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Burundi. Queste persone povere stavano lottando per sopravvivere e hanno abbattuto l’ultima delle loro foreste con sforzi disperati per le coltivazioni per sfamare le loro famiglie o per guadagnarsi da vivere attraverso la produzione di carbone. Il terreno era stato eccessivamente sfruttato dall’allevamento, il suolo stava perdendo la sua fertilità, e l’erosione divenne diffusa. Possiamo proteggere gli scimpanzé se aiutiamo la gente?
Per questo 16 anni fa il Jane Goodall Institute ha avviato il TACARE, un programma di conservazione basato sulla comunità. Esso mirava alla riduzione della povertà, e con un’organizzazione della società, sfruttamento sostenibile delle risorse, programmi di micro-credito soprattutto per le donne, strutture sanitarie migliori e programmi di educazione ambientale, almeno in quell’area del mondo il problema non è stato risolto del tutto, ma è diventato meno grave.

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